lunedì 23 marzo 2015

THE MAN IN THE HIGH CASTLE, LA SERIE TRATTA DA LA SVASTICA SUL SOLE DI PHILIP K.DICK







L’altra sera ho visto il pilot di The Man In The High Castle, la serie che Amazon intende trarre da La Svastica sul Sole, romanzo di Philip K.Dick (conosciuto in Italia anche con la traduzione letterale del titolo originale ovvero L'uomo nell'alto castello).

In realtà il pilot è stato reso disponibile da Amazon per la votazione alcuni mesi fa, ma allora non vedevo il motivo di vederlo dato che non si sapeva nemmeno se sarebbe stato ordinato a serie.

Alla fine però mi sono decisa, un po’ perché Amazon ha dato il via libera alla realizzazione della serie tv (anche se passeranno parecchi mesi prima di poterla vedere), un po’ perché il romanzo è nella mia top five dei libri imperdibili di fantascienza e un po’ perché ho letto meraviglie di questo pilota.

Tutto questo entusiasmo è giustificato? Diciamo che in gran parte sì. Forse non sono così esaltata come molti che ne hanno scritto, ma il giudizio complessivo è ampiamente positivo, anche perché di serie interessanti di fantascienza in tv ormai ce ne sono pochissime. Aggiungiamo inoltre che il cinema non ha quasi mai reso giustizia a Philip K.Dick, tradendone spesso lo spirito, a parte ovviamente alcune note eccezioni.

The Man In The High Castle è un libro (e quindi anche una serie) di fantascienza distopico e ucronico. Ucronico perché immagina un universo alternativo al nostro, distopico perché immagina un universo peggiore del nostro.

In questo universo la Seconda Guerra Mondiale, a causa soprattutto dell'omicidio di Franklin Delano Roosvelt, non è stata vinta dagli Alleati ma dall’Asse Germania-Giappone che si è spartita il mondo e gli Stati Uniti d’America. La costa Est è in mano al Terzo Reich tedesco, la costa ovest è in mano all’Impero Giapponese e in mezzo vi è una zona cuscinetto neutrale.

L’80% degli avvenimenti che si svolgono nel pilot di The Man In The High Castle sono inventati rispetto al libro a partire dall’esistenza di una resistenza al regime, ma non è stata una sorpresa né una delusione per me che me lo aspettavo. Il libro di Dick infatti si basa su pochi fatti sostanziali (ma con piani di lettura stratificati) ed è inevitabile che per sostenere una narrazione di più ampio respiro, come una serie televisiva richiede, fosse necessario romanzarlo e ampliarne l’universo narrativo. Essenzialmente però i personaggi nuovi e gli avvenimenti inseriti nella serie non stonano per niente con la trama generale e lo spirito del romanzo.

Alcuni cambiamenti sono stati perfino molto felici come l’aver modificato, parallelamente al cambiamento del mezzo espressivo, il supporto de La Cavalletta non si alzerà più, il libro nel libro che narra di un universo simile al nostro e che nella serie diventa giustamente un filmino che permette di vedere e non solo immaginare certi avvenimenti.

L’ambientazione è invece identica al romanzo, gli Stati Uniti degli anni sessanta, e i protagonisti sono quasi tutti gli stessi ovvero Frank Frink, un operaio ebreo che ha cambiato il suo cognome per non essere catturato, sua moglie Juliana, Joe Blake, che nel libro si chiama Cinnadella, il signor Tagomi e il signor Baynes. Manca invece il signor Childan, proprietario di un negozio di antichità, che forse apparirà in seguito, anche se visti gli sviluppi ne dubito. 

La serie mantiene inoltre l’attenzione alle filosofie orientali soprattutto all’arte dell’I Ching, il libro degli oracoli cinese, a cui i Giapponesi e non solo danno parecchio credito.

Pur con tutte le differenze quindi questo pilota riesce a catturare le atmosfere del romanzo creando sin da subito un immaginario inquietante che può soddisfare perfettamente sia i lettori di Dick sia i neofiti grazie anche a una trama arricchita e avvincente.

Ho qualche dubbio sugli attori. All’inizio Alexa Davalos che impersona Juliana non mi ha convinto sui registri drammatici, poi con l’andare del minutaggio mi è sembrata più convinta e in parte. Comunque tutti gli attori protagonisti non sembrano eccezionali ma per ora comunque accettabili. 

Anche la CGI è da migliorare (soprattutto nei primi 15-20 minuti non mi ha convinto appieno).

Nel complesso però mi reputo soddisfatta e perfino io che ho letto il romanzo e che quindi conosco già gli sviluppi sono stata agganciata dal finale dell’episodio pilota e intenzionata a vedere come proseguirà la serie visto che sicuramente inserirà nuovi avvenimenti non presenti nella controparte cartacea.

Direi che non resta che attendere il momento in cui verrà annunciata la data in cui la serie sarà finalmente disponibile!

giovedì 12 marzo 2015

BETTER CALL MIKE





E rieccomi a parlare di Better Call Saul dopo il sesto episodio Five-O andato in onda in Usa lunedì scorso.

Cosa è stata fino ad oggi Better Call Saul?
Fino al quinto episodio la serie ci ha mostrato le disavventure di Jimmy McGill nel tentativo di trovare un posto nel mondo, tra imprese truffaldine alla ricerca di potenziali clienti o di un po’ di pubblicità gratuita e esilaranti intermezzi con i più assurdi clienti che si siano visti in giro.
Jimmy sa di voler essere un Avvocato, ma non ha ancora capito che tipo di Avvocato vuole essere e la sua nuova incarnazione della professione in versione Matlock per anziani non durerà a lungo; quando Jimmy capirà di non poter esimersi dalla sua natura criminale vedremo nascere il Saul che conosciamo.

Fino a qui quindi Better Call Saul è stata una serie episodica e situazionale con una trama appena accennata basata sul carisma del suo protagonista e dei comprimari.
D’altra parte questo è lo spin-off di Breaking Bad e finora si è comportato come tale con pennellate che hanno ridipinto e approfondito un personaggio importante di quella serie che però non aveva mai avuto lo spazio necessario per essere sviscerato (perché Breaking Bad era un’altra storia).
BCS è una dramedy più che un vero drama dall’intreccio travolgente come era stata Breaking Bad.

Five-O rappresenta una virata non perché cambi lo status quo della serie, ma perché inserisce di peso ciò che era mancato finora: il dramma appunto.
E lo fa regalando l’intera scena all’altro grande personaggio di Breaking Bad che era rimasto “congelato” in situazioni poco più che comiche, ovvero Mike Ehrmantraut.
Sapevamo che prima o poi Mike sarebbe entrato nella narrazione e che questa serie sarebbe servita ad approfondire anche lui, ma almeno fino alla fine della puntata scorsa non ci si aspettava che la sua entrata sarebbe stata fatta con un intero episodio che lo ha visto unico protagonista.
Spiazzando le aspettative dello spettatore, Five-O (scritto da Gordon Smith e diretto da Adam Bernstein) si presenta come una storia nella storia che lascia il protagonista Jimmy sullo sfondo (ma con un’apparizione da ricordare) per regalarci un one-man show.

E se Jimmy dopo cinque episodi lo stiamo ancora conoscendo, sono bastati 45 meravigliosi minuti per gettare tutta una nuova luce sul personaggio di Mike mai reso prima d’ora in maniera così tridimensionale.
Ciò che in Breaking Bad si poteva solo intuire di Mike, in Five-O diventa esplicito attraverso quello che è un noir, un cop movie e un dramma tra presente e passato magnificamente scritto e diretto oltre che interpretato da un Jonathan Banks in stato di grazia.
Un episodio classico nella sua linearità, nonostante i salti temporali, dove l’“effetto speciale” e il “colpo di scena” sono nel carico di lacerazioni interne di Mike, nel senso di colpa che si porta dentro e nel sentimento di sofferenza che costui rimanda allo spettatore.

Se va avanti così e se inserirà un po’ più di intreccio Better Call Saul potrebbe diventare memorabile.

Note sparse:
-       Mike capisce subito la natura di Jimmy e lo ingaggia per le sue abilità di truffatore più che per quelle giuridiche;
-      A Jimmy va comunque la battuta più bella della puntata: I look like a young Paul Newman dressed as Matlock”.

lunedì 9 marzo 2015

SIGNOR SPOCK, DOTTOR SPOCK


E’ morto Leonard Nimoy.

Lo so è morto da un po’, ma io solo adesso trovo la voglia di buttare giù due righe.

Per tutti e in particolare per me era e sempre sarà Spock di Star Trek.
Io con Star Trek ci sono cresciuta e sin da bambina salivo sull’ Enterprise per arrivare là dove nessuno è mai giunto prima.
Adoravo il vulcaniano dalle orecchie a punta, che più di qualsiasi altro personaggio che ha attraversato la saga in questi 50 anni ne è stato il simbolo, anche per chi la serie o i film non li ha mai visti.

Permettetemi però di sottolineare tristemente che le grandi testate italiane non sanno quello che scrivono soprattutto quando si parla di fantascienza.
Non è possibile che ancora Leonard Nimoy venga definito il “dottor Spock”, confondendolo con il pediatra statunitense di nome Benjamin Spock.
Il dottor Spock come viene chiamato dai giornali italiani non ha nulla a che vedere con il signor Spock che sull’ Enterprise è l’ufficiale scientifico. Il ruolo del dottore era affidato all’anche lui compianto DeForest Kelley che interpretava Leonard “Bones” McCoy (nella nuova saga di JJ Abrams interpretato da Karl Urban).
Il paradosso è arrivato con un giornale che è riuscito a titolare “Addio a Nimoy dottor Spock di Star Wars” (!!!!!!!). Probabilmente avrà fatto saltare dalla sedia sia i fan di Star Trek che quelli di Star Wars.

Per celebrare comunque un grande attore e un personaggio che è diventato un’icona della cultura popolare vi consiglio di recuperare qualche episodio della serie classica per conoscere meglio Spock e i vulcaniani. Si tratta anche di alcuni dei miei episodi preferiti.

-          Amok Time (il Duello)
-          Mirror, Mirror (Specchio, specchio)
-          Journey to Babel (Viaggio a Babel)
-          This Side of Paradise (Al di qua del Paradiso)
-         All Our Yesterdays (Un tuffo nel passato)
-         The Menagerie part.1 e 2 (L’Ammutinamento part.1 e 2)
-      The Trubble with Tribbles (Animaletti pericolosi, non proprio Spock-centrico, ma da vedere lo stesso)

A cui potete aggiungere il secondo film dell’era classica The Wrath of Kahn (L’ira di Kahn).


Ora non posso che augurarvi, con il tipico saluto vulcaniano, Lunga vita e prosperità (Live long and prosper).



martedì 3 marzo 2015

HOUSE OF CARDS, IL CASTELLO DI CARTE





Eccomi tornata on-line dopo essere sopravvissuta a un fastidiosissimo virus gastro-intestinale (non ve lo auguro) e ritorno per ricordarvi che, se non ve lo foste segnati sul calendario, la terza stagione di House of Cards è stata interamente rilasciata il 27 febbraio scorso; l’intera terza stagione, avete capito bene, perché ovviamente House of Cards è un prodotto Netflix.

Per chi non lo sapesse Netflix è una piattaforma americana di streaming online su abbonamento che da qualche anno si è messa a produrre serie originali.
Tra queste House of Cards è diventata in breve tempo la sua punta di diamante (altri prodotti sono Orange Is The New Black, Lilyhammer e fra un mesetto Daredevil).
Altra caratteristica di Netflix è di “rilasciare” tutte le puntate di una stagione nello stesso giorno, così da permettere allo spettatore di poter scegliere la modalità di fruizione della serie ovvero se vedersela in un’unica soluzione o centellinare gli episodi a proprio piacimento secondo la voglia e il tempo.
Purtroppo questo servizio non è ancora arrivato in Italia (se mai arriverà) ed essendo le serie Netflix trasmesse nel nostro paese ancora dalla Tv tradizionale qui da noi non si avverte l’elemento rivoluzionario di questa piattaforma perché la modalità di fruizione è decisa dalla programmazione televisiva e non dallo spettatore.
Tutto questo cappello è per spiegarvi cos’è Netflix e magari fra un pò scriverò un articolo per rendere comprensibile il funzionamento dell’universo seriale americano.

Ma veniamo all’argomento di questo articolo ovvero House of Cards, che in italiano ha il non necessario sottotitolo esplicativo “Gli intrighi del potere”.

House of Cards la serie (possibili piccoli spoiler)

House of Cards è una serie statunitense tratta da una serie inglese a sua volta tratta da un libro omonimo e parla del capogruppo del partito democratico americano Frank Underwood e della sua ascesa al potere nel corso delle stagioni.
Ascesa che nelle modalità non ha nulla di democratico essendo Frank un uomo che vede nella politica un mero gioco di potere e di alleanze, disinteressato al bene pubblico se non nella misura in cui questo possa produrre un accrescimento del potere privato.
Frank Underwood si inserisce a piano titolo nella scia dei “bad guy” della serialità moderna americana non avendo alcuno scrupolo morale nel raggiungimento dei suoi obiettivi per i quali intriga, stringe alleanze strumentali, manipola, usa persone emotivamente fragili e uccide, muovendosi secondo la vecchia filosofia del “Mors tua, vita mea”.
In questa ascesa è coadiuvato dalla moglie Claire Underwood (impersonata dalla sempre bellissima Robin Wright) con cui ha una relazione “aperta”, ma solidissima grazie a una forte complicità e condivisione di obbiettivi.  Frank e Claire sono una squadra unita da comuni desideri e intenti. 
Alcuni commentatori infatti hanno visto House of Cards come una serie sul matrimonio e la coppia. Di certo i due sono molto più uniti di molte altre coppie che vediamo sullo schermo e che dicono di amarsi.

Frank Underwood nel corso delle sue peripezie non disdegna di sciorinare pillole di vita o frasi memorabili rivolgendosi direttamente allo spettatore a cui più volte durante la serie parla attraverso lo sfondamento della quarta parete.
Vi consigliamo di prendere nota di alcune di queste perle e di citarle quando vi troverete nel mezzo di un’intelligentissima discussione politica!

La più memorabile di tutte è Democracy is so overrated (La democrazia è così sopravvalutata) frase ormai diventata manifesto della serie stessa.


Alcuni considerazioni sui primi due episodi della terza stagione, Chapter 27 (scritto da Beau Willimon) e Chapter 28 (scritto da John Mankiewicz)

Da qui grandi spoiler 

Arrivo quindi a parlare dei primi due episodi della terza stagione, gli unici che ho visto finora anche se sono sicura che qualcuno molto ferrato in inglese si sarà già “sparato” l’intera stagione.

Avevamo lasciato Frank Underwood alla fine della seconda stagione, ormai diventato Presidente degli Stati Uniti d’America dopo le dimissioni indotte del Presidente eletto Garrett Walker e senza aver mai avuto un solo voto popolare (vi ricorda qualcuno?).
Proprio questa mancanza di un’investitura popolare sembra essere la maggiore difficoltà per il neo Presidente non eletto, che nella nuova carica viene percepito come un tappabuchi in attesa delle elezioni del 2016, osteggiato dal suo stesso partito che non vuole ricandidarlo e in caduta libera nei sondaggi popolari.

Ciò che lascia un po’ insoddisfatti nel primo episodio (Chapter 27) di questa terza stagione è che si concentra su Doug Stamper, personaggio secondario ma importante nella narrazione per la sua indiscussa fedeltà a Frank.
Il primo colpo di scena è proprio la rivelazione che Doug, che avevamo lasciato in un bosco presumibilmente morto, è invece vivo. Alla sua riabilitazione è dedicata la maggior parte dello screentime della premiere.
Iniziare con un episodio così particolare lascia un certo effetto di straniamento e insoddisfazione perché il protagonista viene lasciato sullo sfondo. E’ un po’ come se ci trovassimo davanti a un’altra serie.
Questo episodio è tra l’altro scritto proprio dal creatore Beau Willimon ed è lecito chiedersi se tutta questa attenzione al personaggio di Doug voglia significare che lui e quindi anche il personaggio di Rachel diverranno fondamentali in questa terza stagione. Rachel rappresenterà la nemesi di Frank e porterà alla sua caduta?

Il secondo episodio (Chapter 28) si muove invece su binari più tradizionali alla serie riportando l’attenzione su Frank Underwood e sulla Casa Bianca, con un risultato finale decisamente più avvincente.
Quest’ultimo messo al muro dal suo partito reagisce e passa al contrattacco riuscendo ancora una volta a ribaltare il proprio svantaggio segnando un punto a favore. Il discorso alla Nazione è uno di quei capolavori di ipocrisia travestiti da schietta onestà che solo Frank ci sa regalare. Qualcuno crede veramente che Frank non si candiderà alle prossime elezioni? State sereni.
Se “America Works”, il programma molto discutibile promosso da Frank, funzionerà, il nostro sarà pronto a fare le scarpe a qualsiasi candidato il partito democratico vorrà presentare.

Altro punto cardine su cui ruoterà la stagione sembra essere Claire e il suo desiderio di voler uscire dall’ombra del marito per promuovere se stessa (tempismo perfetto….).

Che dire? Per ora non mi sbilancio troppo e dico che l’inizio è Ok. Dopo una premiere spiazzante il secondo episodio sembra promettere un’altra avvincente stagione di intrighi e giochi di potere. L’unica mia speranza è che Frank Underwood possa veramente trovare sulla sua strada un avversario degno di lui (il punto più debole della seconda stagione è stata la facilità con cui il Presidente Walker si è fatto infinocchiare).
Io comunque mi accomodo per la visione e dico solo: bentornato Frank!