E’ trascorso un bel po’ da quando ho scritto l’ultima volta sul blog ma da quando è terminata la seconda stagione di Better Call Saul un paio di considerazioni volevo metterle per iscritto.
Più di un anno fa all’inizio
della messa in onda della serie mi chiedevo che tipo di serie mi sarei trovata a
vedere, se questa avrebbe avuto una sua indipendenza o se sarebbe stata un
insieme di citazioni e rimandi di Breaking Bad che, sull’onda della nostalgia,
avrebbe riunito un po’ di fan di vecchia data non ancora rassegnati alla fine
della serie madre.
Se i dubbi erano più che
legittimi e sono continuati per un po’ anche dopo l’inizio della serie, la seconda stagione li ha fugati del tutto.
Better Call Saul è una serie
ormai matura e indipendente che racconta una “sua” storia, piena certo di
citazioni e rimandi a Breaking Bad (nella seconda stagione appaiono diversi
personaggi) ma che al tempo stesso ha dimostrare di seguire una sua strada
indipendente e sviluppare dei personaggi a tutto tondo.
La seconda domanda che mi ponevo
era strettamente legata alla prima e riguardava che cosa avrebbe narrato Better
Call Saul. La risposta sembrava ovvia, ovvero come Jimmy McGill sarebbe
diventato Saul Goodman, ma restava il dubbio di come questa trasformazione
sarebbe stata narrata. Anche in questo la seconda stagione è stata
chiarificatrice.
Better Call Saul è un family drama,
anche se sarebbe meglio definirlo un “brother drama”, se mi passate il temine
coniato da me.
La storia di Jimmy non è una
storia di intrighi di avvocati o di un uomo che sfugge al contenzioso in
tribunale, come si poteva supporre alla vigilia, ma la storia di due fratelli e
del loro rapporto conflittuale che si trascina negli anni. Entrambi sono portatori
di una visione antitetica della realtà: quella rigorosa e rigida di Chuck e
quella truffaldina ma simpaticamente affascinante di Jimmy.
Nonostante il successo
professionale Chuck infatti non sembra poter perdonare al fratello minore di
saper affascinare le persone pur essendo fondamentalmente un disonesto così come
succede anche a Kim, il cui personaggio in questa seconda stagione è cresciuto
enormemente, diventata meno legata alle sue convinzioni man mano che si
avvicina a Jimmy e al suo vivere senza costrizioni.
Il tutto è condito dallo stile (questo
sì) di Breaking Bad, attraverso un eccezionale comparto tecnico ma soprattutto
una padronanza di mezzi e una capacità di far parlare le immagini e i silenzi
come sono Gilligan e soci sanno avere.
Certo il fatto che BCS non sia Breaking
Bad comporta che alla dilatazione dei tempi raramente corrisponde una repentina
deflagrazione (anche letterale) degli avvenimenti in cui qualcuno muore o si fa’
parecchio male. Insomma non è un western moderno à la Sergio Leone.
In questa serie la dilatazione dei
tempi può risultare ancora “più pesante” proprio perché ancora più concentrata sulle
piccole azioni quotidiane dei personaggi e su come queste, come una goccia che
cade, cesellano gli avvenimenti e le psicologie dei personaggi.
Una parte di quel mondo del
cartello c’è ancora ed è sulle spalle di Mike la cui vicenda, pur regalando
ottimi momenti di tensione (fra tutti lo scontro Mike/Tuco) sembra ancora
essere in una fase di preparazione ad eventi futuri (il biglietto alla fine
dell’ultima puntata...).
Al contrario la storyline di
Jimmy non ha più bisogno di rodaggio.
Ecco se posso trovare un difetto in
questa seconda stagione, è la mancanza di connessione tra la storia di Mike e
quella di Jimmy che per ora procedono parallelamente incontrandosi solo
sporadicamente.
Proprio questo vorrei vedere
nella prossima stagione una maggiore interazione tra i due filoni narrativi dei
due protagonisti e spero che questo accada quando anche la storia di Mike
entrerà “nel vivo”.
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